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L’antropologia entra per la prima volta in una struttura sanitaria. A Montecatone concluso lo studio congiunto con Unibo sui pazienti con GCA

Per la prima volta in Italia il metodo antropologico entra in una struttura sanitaria, in questo caso l’Istituto di Montecatone dove, al trattamento riabilitativo classico in fase post-acuta studiato per i pazienti con Grave Cerebrolesione Acquisita (GCA), è stato affiancato un protocollo proposto da MNEM (società di ricerca di antropologia applicata, spin-off dell’Università di Bologna).

I risultati dello studio, durato sei mesi e curato dall’Unità Operativa Complessa Gravi Cerebrolesioni Acquisite diretta da Pamela Salucci – e di cui proponiamo una anticipazione – saranno presentati in occasione al prossimo congresso nazionale SIRN in programma a metà aprile e sono in fase di pubblicazione. Il progetto ha coinvolto pazienti adulti di entrambi i sessi con grave cerebrolesione acquisita da evento traumatico, anossico, emorragico, infettivo o infiammatorio-metabolico che avevano manifestato l’evento acuto non oltre sei mesi dall’inizio del progetto.

«Enfatizzando l’importanza dell’input sensoriale come elemento di contatto durante la cosiddetta interazione guidata – spiega Salucci – il terapista assicura un corretto stimolo tattile-cinestesico capace di generare input significativi alla percezione dello schema corporeo; con l’intento di poter far sperimentare e praticare, ai singoli pazienti, l’esercizio della parola e del dialogo da una parte e della gestualità, del movimento e dell’interazione dall’altra, all’interno di momenti strutturati e controllati, abbiamo deciso di utilizzare l’expertise degli antropologi per la prima volta in ambito clinico».

«L’idea – spiega Gaia Musumeci, medico fisiatra occupatasi direttamente del progetto – è stata che, lavorando sull’aspetto sensoriale e di contatto secondo il metodo antropologico si potesse creare un dialogo fra persone con disabilità e/o malate e ricercatori, fornendo ad entrambi un canale di comunicazione; gli antropologi e storici «hanno effettivamente instaurato una relazione di dialogo con gli ospiti e i loro familiari – aggiunge Musumeci – cercando di individuare, a partire dalle storie di vita, oggetti e ricordi significativi per la ricostruzione dell’identità personale del paziente».

Obiettivo primario dello studio, che i ricercatori coinvolti confermano di aver raggiunto, la valutazione della fattibilità dell’introduzione del metodo antropologico in ambito clinico e la conseguente impostazione di un protocollo di intervento utilizzabile nella pratica, fattispecie resa possibile dall’osservazione dell’outcome del paziente.

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